Tribunale di Lucca, sentenza n. 750/2020.
Se l’acquisto di diamanti si è rivelato un pessimo affare, il compratore può legittimamente pretendere un ristoro economico dalla banca che gli ha segnalato l’offerta della società venditrice delle pietre preziose.
All’origine della vicenda c’è una brochure informativa: quel documento, consegnato dalla banca a un correntista, segnala un affare, ossia il possibile acquisto di diamanti da una società. Il cliente segue il consiglio dell’istituto di credito e compie l’operazione, comprando due diamanti, lasciati però in custodia alla società venditrice.
Poco tempo dopo, però, a seguito di una verifica compiuta dall’Autorità garante per la concorrenza e il mercato, il correntista si rende conto che in realtà ha pagato un prezzo eccessivo, nel settembre del 2015, per entrambi i diamanti, e che la possibile rivendita – con connesso guadagno – ipotizzata sulla brochure fornita dalla banca non ha alcun fondamento, tenendo presente il loro reale prezzo di mercato.
Consequenziale è la decisione del compratore “tradito” di citare in giudizio l’istituto di credito per chiedere un adeguato risarcimento.
Il Ruolo dell’autorità Garante
Rilevante, poi, anche la relazione dell’Autorità, relazione conclusa con «il riconoscimento di una generale responsabilità concorrente della banca, assieme a quella della società venditrice, per la rappresentazione parziale, ingannevole e fuorviante dell’investimento in diamanti quale “bene rifugio”, per la rappresentazione del prezzo, qualificato come “quotazione di mercato” ma in realtà non corrispondente a tale concetto, per la rappresentazione, non oggettiva e non corrispondente alla realtà, dell’andamento del mercato dei diamanti e, infine, per la qualifica soggettivamente attribuita alla società di leader del mercato». In sostanza, l’Autorità ha riconosciuto «l’interesse delle banche all’attività di vendita dei diamanti sia nell’evidente ritorno economico, sia nella fidelizzazione della propria clientela», e in questa ottica è emerso che «gli impiegati delle filiali proponevano ai clienti, nel corso di colloqui di consulenza sugli investimenti, l’acquisto di diamanti secondo le modalità indicate dalla società venditrice, provvedendo ad illustrare la brochure informativa e successivamente curando la compilazione del modulo di acquisto, nonché organizzando gli incontri con il personale della società e curando direttamente la custodia della pietra, qualora non fosse stata affidata alla stessa società».
Così sono emerse «le modalità con le quali si svolgeva l’offerta» e che «hanno permesso l’attuazione della condotta scorretta della società, con la quale era in atto un accordo di collaborazione» da parte della banca, e proprio le filiali dell’istituto di credito «svolgevano un ruolo attivo nella divulgazione del materiale promozionale della società venditrice, essendo tenute a farlo in esecuzione degli accordi con la stessa società, e selezionavano i soggetti ai quali presentare – del tutto acriticamente – l’offerta, inducendo il cliente a stipulare il contratto in forza della presenza della banca in ogni fase, di formazione, di stipulazione ed esecutiva, del contratto stesso, inducendo così nel cliente la sensazione di essere “garantito” nell’acquisto dei diamanti e tradendo in tal modo l’affidamento del cliente nella propria banca».
Logica, quindi, la sanzione decisa dall’Autorità, che ha imposto alla banca il pagamento di 3milioni e 335mila euro.
All’interno di questo quadro, però, è anche emerso, in maniera inequivocabile, che «il valore dei diamanti acquistati dal cliente era di gran lunga inferiore al prezzo effettivamente pagato, e che gravava in ogni caso sulla banca, che ha proposto l’affare, l’obbligo di informare appieno il cliente su tale circostanza, non risultante dalla brochure informativa a lui consegnata», in quanto «la mera segnalazione costituisce comunque un incentivo alla stipulazione del contratto e la banca conserva, comunque e indipendentemente dalla sua posizione strettamente legata al caso di specie, l’obbligo generale di ben gestire il capitale dei propri clienti, dovendo assumersi in tale obbligo anche la corretta informazione sulle pratiche di investimento dalla stessa consigliate o anche soltanto meramente segnalate. La banca avrebbe dovuto, in particolare, segnalare al proprio cliente l’effettivo utilizzo delle somme da questi versate, specificando quali importi, e in quale misura, sarebbero stati destinati a servizi e/o oneri aggiuntivi rispetto al mero acquisto delle pietre e giustificare in tal modo al proprio cliente il prezzo da questi pagato alla società. Tale segnalazione appare ancor più doverosa, considerando che l’attività di segnalazione della banca era comunque remunerata da parte della stessa società venditrice, non potendosi escludere, anzi, parendo davvero probabile, che parte del prezzo fosse destinato a coprire le spese della società attinenti alla remunerazione della banca».
Di conseguenza, preso atto del «nesso tra l’attività di consulenza» espletata dalla banca «e l’acquisto delle pietre preziose», e considerato che «proprio sulla consulenza della banca il cliente ha fondato la sua decisione all’acquisto», deve ritenersi accertata «la responsabilità della banca nella causazione del danno dovuto all’esorbitante prezzo pagato dal cliente, dovendosi, riguardo al quantum del danno, far riferimento all’effettivo valore delle pietre acquistate e quantificarlo nella differenza tra il prezzo effettivamente pagato e il prezzo corrispondente al valore reale dei diamanti acquistati».
Ciò significa che il cliente della banca merita di essere risarcito, ma la cifra «sarà pari alla differenza tra la somma complessiva pagata e il valore effettivo dei diamanti.